Dopo Masaccio Beato Angelico, la ricezione della novità
Tra i pittori che studiavano la Cappella Brancacci, cioè tra i primi eredi in grado di mettere originalmente a frutti il patrimonio lasciato da Masaccio, Vasari cita in primo luogo Beato Angelico (1935-1455). Gli affreschi del Carmine furono per lui certamente una rivelazione, ma anche stimolo a continuare un percorso già intrapreso in contemporanea con Masaccio, alla ricerca di vie diverse da quelle dei suoi maestri, Starnina e Lorenzo Monaco. Sia nelle miniature che nelle prime tavole attribuitegli il frate offre immagini di geometrica purezza, giocate su accordi luminosissimi di colori accesi. In esse lo spazio è creato e misurato dal gestire composto di figurine appena allungate, dalle vesti semplici percorse da pieghe pesanti, solo a tratti più mosse da profili ondulati.
Nel Trittico di San Pietro Martire, databile intorno al 1425, esposto al Museo di San Marco a Firenze, la Vergine chiusa nel manto animato da pieghe determinate dalle ginocchia è collocata in uno spazio definito dall’affondare del tappeto. E’ presente un’eco di Gentile, ma l’attenzione ai gesti accompagnati da sguardi partecipi, la definizione umana dei personaggi segnano un deciso distacco dagli stilemi internazionali. Distacco che si precisa nell’Annunciazione ora custodita al Prado. Con il passare del tempo, le opere di Beato Angelico si caratterizzano poi per un’accresciuta definizione dello spazio e compare il particolare uso della luce, che sarà proprio il segno distintivo di Beato Angelico. Il chiaroscuro si trasforma in illuminazione diafana, che modula i volumi, esalta l’essenza cromatica e plastica e collabora all’unificazione delle scene. Tutt’altro che nostalgico revocatore del misticismo medievale, l’Angelico va precisando i termini di una visione basilare per gli artisti della seconda metà del 1400.